Io non leggevo.
In casa c’erano tre libri, capitati forse per caso o, più probabilmente, dimenticati da chissà chi venuto in visita: Arcipelago Gulag, una Bibbia per ragazzi e l’immancabile Luca Goldoni, regalato sicuramente da qualche parente con voglia di fare il fico. Capirete quanto, specie da adolescente, si preferisca indugiare in ben altri passatempi e non ci si senta invogliati alla lettura.
Non avevo bisogno di leggere: vengo da una famiglia di tecnici.
Bisnonno era marconista sul Carso e, tolte le bestemmie, nessuno riusciva a trasmettere il Morse meglio o più velocemente delle sue dita. Fu lui a dare l’ordine di ritirata e potete facilmente immaginare in che termini.
Durante la seconda guerra mondiale, l’Italia schierò la bellezza di ben 5 carri armati P40; di questi, uno solo svolse fino in fondo il suo dovere: quello in cui mise le mani mio nonno.
Papà partì dalla Scuola Radio Elettra per arrivare alla costruzione artigianale di un amplificatore in grado di parlare con l’Australia, valvole comprese. E di un rozzo ma efficace sistema di elettrificazione autonoma e invisibile di una sedia per farla pagare ad una suora, sua insegnante, da lui giudicata un filo troppo zelante.
I miei mi regalarono un gatto siamese, fantasiosamente chiamato Chicco, con evidenti problemi motori e di visione notturna, non passava notte senza sentirlo sbattere da qualche parte e miagolare dolorosamente. Avendo accesso al laboratorio paterno, costruii un modulo indossabile denominato Fari Felini, composto da una imbracatura e da un sistema di illuminazione a led a batteria (era un gatto di intelligenza superiore: ci mise solo sei mesi a capire come potesse accenderlo e spengerlo da solo, il tutto nonostante un chiarissimo libretto di istruzioni fornito a corredo), che gli permise per molti anni una sicurezza notturna tale da fargli credere di essere diventato una Alfetta e potersi permettere di uscire per strada la notte.
Dove incontrò una vera 127. Ma questa è un’altra storia.
Senza magari poter vantare parentele tecniche fin quasi ai tempi di Carlo Magno, tutti i componenti della mia classe di terza media scelsero gli studi scientifici, tra i sorrisi soddisfatti dei rispettivi genitori.
Tranne due, diretti al classico.
Ricordo una sera aver visto mia mamma uscire con una teglia di lasagna coperta da un foglio di alluminio.
“Dove stai andando?” – chiesi.
“Vado a casa dei De Angelis, Carletto ha scelto il classico” – disse segnandosi il petto – “avranno bisogno di tutto il conforto possibile. Ma tu sapevi?”
“Mamma dai, in classe lo sapevamo tutti da tempo… non ne parlava ma si vedeva, su.”
“Paolo, se mai dovessi scoprire anche tu la passione per i libri, noi ti vorremmo bene lo stesso, lo sai, vero? L’importante è che tu sia felice.”
“Mamma, tranquilla: mi ci sono fatto anche una maglietta con scritto LA MIA TRINITA’: DIO, FAMIGLIA E NUCLEARE, con me stai tranquilla.”
Arrivato buzzurramente ignorante fino ai 16 anni, uno scazzatissimo professore di italiano dell’Istituto tecnico dove andavo, ben conscio che le sue quattro ore di lezione settimanali contavano quasi come l’ammonimento materno “e vedi di non sudare!” quando si andava a giocare a pallone, decise di ammollarci l’abusatissimo tema “Racconta un libro letto recentemente” prima di gettarsi nuovamente nella pigra lettura di un Corriere Dello Sport del giorno prima.
Fatalità, il giorno in cui veniva assegnato questo tema era esattamente quello in cui avevo deciso che la 45esima volta in cui Anna Maria Bombazzi mi trattava da schiavo sarebbe stata quella in cui si sarebbe decisa a farla smettere di girare per tutti e, stavolta, l’avrebbe fermata davanti a me.
Non fu così.
Anna Maria Bombazzi, detta Tiki Taka, non me la diede MAI. Rese felice anche Guido Anselmini, divorato dalla psoriasi, dall’acne, balbuziente fino allo svenimento da mancanza di ossigeno e dotato di un alito, in seguito brevettato, che fece la sua fortuna, imbottigliato e venduto come insetticida negli empori cinesi.
Ma mai me. Tantomeno quel giorno.
Al mio ritorno, trovai la già scarna biblioteca scolastica ampiamente saccheggiata dei libri sotto le 100 pagine, la desolazione più totale nel reparto sotto le 200, qualche scarno cenno di vita in quello tra le 200 e le 300.
Sì.
Eravamo un Istituto Tecnico, poco più di una scuola per intrecciatori di canestri, era normale per la nostra biblioteca avere questa classificazione. Moby Dick, i tomi di Dickens e qualsiasi cosa potesse essere letta da chiunque avesse un QI anche solo leggermente superiore alla minima di Urano era classificata sotto “AHAHAHAHAH”.
Dicevo.
Mi trovo al limite della disperazione a dover scegliere tra volumi grandi quanto mio zio Ciccio o manuali tecnici tipo “Le nuove frontiere della pupinizzazione” o “Termomeccanica avanzata: leva ‘sti cazzo de piedi freddi dai miei” e “101 motivi per cui le valvole sono migliori delle donne – Ma ve ne basti uno: alle valvole puoi arrivarci.”
Ok: lacrime.
Proprio nel momento in cui stavo abbandonando quello sgabuzzino delle scope oscenamente definito biblioteca, ormai rassegnato a dover scoprire dove minchia fosse situato questo Arcipelago Gulag in Russia (va bene che all’epoca era grande ma, cazzarola, di arcipelaghi non ne avevo mai visti), in quel momento mi appare LUI.
Con mossa veloce e felina lo agguanto ridendo di come i miei compagni siano stati così cretini da lasciarsi scappare un libro d’avventura, sicuramente una cosetta facile facile come Salgari, visto il titolo. Il deserto dei tartari.
Torno a casa deciso a togliermi dalle scatole il prima possibile questo stupido compito in modo da poter tornare subito alle normali occupazioni adolescenziali: lamentarsi di non essere capiti, la ricerca di un rimedio sicuro per le tendiniti ai polsi e immaginare stadi gremiti da tifosi adoranti anche se il tuo allenatore preferisce giocare in nove piuttosto che farti entrare in campo.
(“Mister, si sono fatti male Zufoli e Ricciotti, va bene Zufoli che è un portiere e al posto suo ha schierato il secchio dell’acqua tanto è uguale, ma Ricciotti gioca nel mio ruolo, potrei sostituirlo, non c’è nessun altro in panchina.”
“Longarini, tu non solo non giochi nello stesso ruolo, tu non fai proprio lo stesso sport.”
“Mister, lei non dovrebbe incitarmi?”
“Lo faccio da quando ti conosco: ti incito a fare qualcosa di più consono con quelle ridicole appendici che tu chiami piedi.”
“E cosa?”
“Usarle per andartene il più possibile affanculo lontano da me.”
“Mister, lei nella tattica è bravissimo, nell’empatia, un po’ meno.”
“Longarini, l’ultima volta che ti ho messo in campo sei inciampato nei tuoi stessi piedi…”
“Gli scarpini…”
“…dopo soli tre passi. Tre. Non eri nemmeno entrato e l’arbitro ti ha ammonito per simulazione.”
“Su sua richiesta.”
“No, io chiesi il rosso diretto: piede sinistro a martello su caviglia destra, da regolamento è rosso, quello stronzo non se la sentì.”)
Se la vita fosse un film, a questo punto sarebbe partita una musica di John Williams.
Dalla lettura delle prime pagine qualcosa inizia a muoversi. Un terzo di libro dopo, non riesco a stare fermo sulla sedia mentre leggo. Arrivato a metà dico a mia madre che non mangerò quella sera, ho da fare, non mi sento molto bene, lasciatemi solo e no, tranquilli, non occuperò ancora per ore l’unico bagno di casa. A tre quarti scopro di non avere sonno, il bisogno di dormire non può minimamente fare il pari con lo scoprire l’esistenza di un collegamento diretto tra il cervello e cuore e di come si possa arrivare a piangere senza rendersene conto, nemmeno sentendo il bagnato scorrere sulla faccia ma accorgendosi solo di una accresciuta difficoltà nel leggere. Piangere senza sapere minimamente cosa si stia facendo e perché, fottersene allegramente di essere dei rudi sedicenni semipelosi privi fino ad allora di ghiandole lacrimali (quelle versate durante la visione di Candy Candy non contano).
Leggere le ultime pagine sapendo ESATTAMENTE cosa prova il protagonista.
Ci sono momenti nella vita in cui ti senti diverso, non è tanto l’apparizione di un enorme monolite nero a fartelo capire quanto il rumore che senti.
È ritmico, non sempre costante, a volte ballerino. Puoi arrivare a sentirlo in gola e, a volte, perfino essere consapevole di non sentirlo affatto. Quel rumore lo provoca un organo che può essere donato, spezzato, sforzato e ridotto lentamente a poco più di un sasso.
Ma fa QUEL rumore.
E lo senti.
Lo senti quando ti rendi conto che quell’emozione potrà essere certo stata creata partendo dalla tecnica: un libro è rotative, scienza, ingranaggi che si muovono, valvole e pistoni, fegati e polmoni, l’eleganza perfetta. Gutenberg era un tecnico, mica uno scrittore.
Il processo che ha portato alla costruzione di un libro è meraviglioso, ingegnoso, il problema, però, nasce quando un libro, dopo averlo stampato, lo apri.
Improvvisamente, come fosse una 127 che non vede delle piccole luci sulla strada, vieni colpito da mura e castelli, draghi, orfani e pirati, torri vengono tirate su, oceani si riempiono e svuotano, astronavi vengono costruite e fatte avvampare dalle fiamme su ben noti bastioni.
No, non quelli del Gran Sasso, dal bassissimo valore.
Apri un libro e ti trovi una specie di sigla di Game of Thrones sempre diversa.
Leggi una storia e la sentirai a un livello emozionale che nessun altro supporto potrà mai darti.
Ora, anche molto più di allora, siamo circondati dalla scienza. Paradossalmente, senza sapere minimamente come usarla.
Abbiamo computer, Netflix, tablet, supporti di archiviazione che rendono patetici quelli considerati avanguardia solo due anni fa. Le librerie chiudono, le catene di elettronica prosperano. Addirittura nelle moderne cattedrali, i centri commerciali, non si fa più caso se c’è o meno una libreria.
Sto scrivendo usando un pc. Utilizzando un programma su cui hanno lavorato per anni delle menti geniali, dei tecnici dotati di nozioni e conoscenze che mai potrò eguagliare nella vita.
Ma se sto facendo tutto questo, è solo grazie a un libro.
Un libro.
In un mondo dominato dalla tecnica e dalla tecnologia, aprire una valigetta ed estrarne un libro è diventato un gesto da guardare con bonarietà.
Ma tutto parte da lì, dall’aprire delle pagine.
Se vuoi davvero, ma davvero davvero intendo, bene a qualcuno, non limitarti a lasciarlo libero, come cantava il poliziotto inglese.
Regalagli un libro. Aprigli la mente come mai avrebbe immaginato.
Leggere è sovversivo.
Non passare al lato oscuro, sii un ribelle.
Vero, loro hanno i biscotti.
Ma noi abbiamo la ricetta.