Ho dei ricordi particolarmente sbiaditi di zia Assunta e zio Augusto.
Vivevano in un casolare nelle Marche, contadini da generazioni, almeno da quando l’aratro si attaccava ai triceratopi. Oddio, forse ce lo attaccavano proprio loro, li ricordo sempre uguali e sempre vecchi, in fondo erano contadini e non ferrovieri eroi.
Sposati dalla notte dei tempi, come testimoniato dal graffito rupestre incorniciato sul comò della camera da letto, non li ho mai visti meno che felici.
Una coppia costretta a portare la fede di guerra, di quei tempi e quei mestieri dove la parità dei sessi c’era eccome: al cantare del gallo, in piedi tutti e due e via a lavorare. Arare, governare bestie, pulire e fare attenzione ai piccoli imprevisti sempre presenti nella vita di campagna, sciocchezze tipo avere un figlio tanto broccolo da perdere due dita per scommessa o ritrovarsi, da sola, a dover fermare la corsa di Orlando.
Piccolo particolare.
Orlando era il toro.
Era già capitato scappasse ma, mai come quella volta, sembrava deciso davvero a voler distruggere tutto. Mi raccontarono che sembrava impazzito: spaccò la fontana a testate, caricò la votiva della Madonna vicino alle stalle, fece scempio di buona parte delle galline e sembrava non volersi fermare. A ulteriore dimostrazione di quanto sia vero che il cervello è stato dato in dotazione a uomini e donne insieme ma come solo a queste ultime abbiano fornito anche le istruzioni d’uso, vista la scia di devastazione che si stava portando dietro Orlando, entrambi presero la decisione di fermarlo, ognuno a modo proprio.
Zio si lanciò verso di lui bestemmiando con tanta forza da sbattezzare almeno metà dei braccianti nascosti e al sicuro dalla furia distruttrice. Del toro. Non credo esistesse muro in grado di resistere ai porco qui e porco lì di zio. Il problema era che Orlando, sostanzialmente, se ne fregava. Perché mai avrebbe dovuto prestare attenzione alle evocazioni pagane e ai consigli di Yoga Tantrico Autoasservente urlati da zio? Inoltre, lui si chiamava Orlando, mica San Giuseppe e, anche volendo, non vedeva davvero il vantaggio nell’infilarsi dentro il…
Ma parliamo d’altro.
Immaginate una coppia tardo settantenne.
Un toro incazzato.
Il Lui della coppia, forse convinto che i tori siano tutti domabili come quelli presenti sullo stemma del suo trattore, inizia a correre seguendo una linea retta pressoché perfetta tra il punto A, detto punto d’origine e il punto B, zoccolata in faccia.
Lei, abituata a vedere la luce dei suoi occhi combinare stronzate, abbandona il piano originario di nascondersi fottendosene di tutto e tutti, in particolar modo di un toro di svariati quintali, in preda a una apparentemente incontrollabile crisi di isteria, nemmeno gli avessero soffiato da davanti agli occhi l’ultimo paio di Manolo Blahnik in saldo e decide di salvare anzitutto il marito da morte certa, quindi la giornata.
Pur con la schiena piegata in avanti dall’artrosi, pur senza averne MAI guidata una, convinta dalla mamma che certe cose non fossero per signorine a modo, corre, con la velocità permessa dai suoi anni, nel garage lì accanto.
Per uscirne alla guida di una Simca 1000 verde.
Imposta la rotta di collisione e si lancia a tutta velocità contro Orlando. Pochi attimi prima che questo partisse per la sua, eguale e contraria a quella di zia, ma rivolta verso zio. In breve, fa un frontale col toro.
In un’epoca nella quale il massimo delle dotazioni di sicurezza a bordo era rappresentata da una bibbia nel cruscotto. Del tutto inutile, poi, per almeno il 50% della coppia, destinata sicuramente ai barbecue infernali.
Dopo l’impatto, la scena è questa:
un toro, a terra;
una zia, con la testa sanguinante appoggiata al volante, ma col sorriso soddisfatto di chi sa quanto ne valesse la pena;
uno zio in lacrime urlante.
“LA MIA MACCHINA”
La leggenda narra che zia, ripresasi all’istante, uscì dai rottami fumanti, salì sul cofano per arrivarci meglio e mollò la regina di tutte le sberle in faccia al marito.
Che fece pippa.
“Adesso entra in casa e telefona al dottore e al veterinario, ci servono tutti e due.”
“Chi chiamo per primo?”
“Dopo questa domanda, il dottore, ti servirà.”
Zio non volle mai separarsi nemmeno dai rottami della sua auto, nel capannone dove mettevano le macchine agricole ricavò uno spazio e la mise a riposare.
Non per sempre. Gigi, il figlio optaditato, qualche settimana dopo la loro scomparsa sollevò il telone, trovando il reperto. Decisamente più arrugginito.
Usò i soldi avuti in eredità per tre cose. Il funerale, una cena tutti insieme come da ultime volontà e far rimettere a nuovo la macchina del padre. Per quest’ultima, spese molto più che per le precedenti. In molti cercarono di dissuaderlo vantando l’avere l’evidenza della ragione dalla loro parte: pezzi per quella macchina ormai impossibili da trovare, e comunque, anche a trovarli, non sarebbe mai potuta tornare a camminare.
Lui se ne fregò. E la fece sistemare lo stesso.
A quelli, tanti, me compreso, che lo presero per matto, fece vedere a tutti la stessa fotografia, estraendola dal portafogli: lui piccolino seduto su un sedile in finta pelle ricoperto di cellophane, circondato da due ragazzi felici.
“Non potrà mai più camminare, non ci potrò certo andare in giro, solo di carrozziere andrà via quasi tutto il conto corrente… ma se non la guardo direttamente, se mi limito a sbirciarla con la coda dell’occhio, io li vedo lì dentro. E questo mi basta.”
Siamo legati agli oggetti.
Abbiamo cuori nei portafogli, disegni incorniciati, peluche rovinati dai quali non ci separeremo mai.
Questi sono gli oggetti in cui riponiamo il nostro presente e ci tengono ancorati al nostro passato.
Poi ci sono quelli che desideriamo o a cui decidiamo di affidarci per il futuro. Cose comprate per la voglia di possedere qualcosa di bello. Per noi, non necessariamente da sfoggiare. Qualcosa per assecondare e alimentare una nostra mania.
Personalmente, so per certo esistano bollitori pronti a svolgere egregiamente la loro funzione anche a fronte di una spesa irrisoria.
Ma.
Ma ero, e sono tuttora convinto, della migliore riuscita del tè ottenuta ogni volta grazie all’uso del MIO bollitore Alessi, costato quanto un tagliando a Gundam.
Eppure, è solo un bollitore. Tecnicamente, si ottiene lo stesso risultato anche con un banalissimo pentolino.
Una mia amica ha comprato una borsa di Fendi due mesi fa. Non l’ha ancora mai usata.
“Se la porto fuori, ho paura perda questo odore…”
Mio cugino ha speso quasi uno stipendio per una penna. Una rata di mutuo stretta tra le dita e usata per scrivere xò, xké insieme a un tripudio di k. Mio cugino non è un leone da tastiera ma un imbecille a mano libera.
Al di là dell’effettiva o meno maggiore efficienza, gran parte dell’indubbio successo dei computer Mac è nella loro bellezza.
Il vero valore aggiunto.
Quello per cui vale la pena spendere qualcosa in più, in tempo e denaro.
Non solo abbiamo oggetti che ci rappresentano, talvolta sentiamo il bisogno sia così. Vogliamo legare un pezzo noi a un oggetto. Racchiudere una parte di una nostra felicità in qualcosa di tangibile e sempre a disposizione.
Un horcrux.
Da usare in caso di bisogno.
A volte sono oggetti conservati dall’infanzia, più spesso, sono nostri acquisti legati a piccoli o grandi sacrifici, necessari per aggiungere calore alla materia. Abbiamo necessità di qualcosa di BELLO.
Intorno, non ne si trova poi molto. Quindi, lo andiamo a cercare.
Siamo cresciuti coi poemi epici dove l’eroe si contraddistingue come tale dall’assurdità e dalla coglionaggine con cui si lancia alla ricerca dell’oggetto desiderato o della donna bramata. Questo vogliamo, vogliamo l’assurdo per sentirci più eroi, avere qualcosa che ci faccia cantare le nostre canzoni a muso duro e perderci nella ricerca del bello.
Un legame. Per molti incomprensibile e questo lo rende ancora più forte, il nostro essere soli contro un mondo intero che ci considera folli aumenta la nostra determinazione e ci aiuta a creare qualcosa tra noi, esseri a volte senzienti e un oggetto inanimato.
L’oggetto ci dà la bellezza, noi gli diamo l’anima.
Perchè spendere tanti soldi per una prima edizione di un libro, ad esempio? Un libro è un libro, no?
No.
Una prima edizione racchiude tra le pagine ancora l’incertezza, il dubbio, il rischio che l’opera possa non essere apprezzata, trattiene il piacere di avere tra le mani qualcosa che pochi hanno visto, ci regala gratificazione l’avere qualcosa di insieme costoso e non facile da trovare.
Una gioia.
Una volta tanto.
Ce la meritiamo.